Il Barone
Giuseppe Di Stefano (1906)?
Giuseppe Di Stefano (1906)?
Il Barone e il Barman
Nei miei primi giorni di servizio, da una vetrata socchiusa del quarto piano ho intravisto un rigoglioso giardino, denominato "Il Roof Garden". Attratto da quella bellezza, sono entrato e ho notato per la prima volta un uomo in pantaloncini che innaffiava piante di limoni, gelsomini, cactus, ibiscus. Pensando che fosse il giardiniere ho buttato lì qualche complimento e gli ho chiesto se potevo offrirgli un caffè. Lui mi rispose: “No, unni pigghiu cafè”. Ma io insistetti: “E allura n’avutra cosa, ci la offru iu”. Ovviamente non ci fu modo. I miei colleghi poi mi terrorizzarono: “Ma cosa hai combinato? Quello era il barone Di Stefano!”. |
A sera l'ho rivisto. Indossava il suo impeccabile abito di
lino bianco. Per rimediare alla gaffe, l’ho salutato con un rispettoso
"buonasera barone". Lui capì il mio imbarazzo e mi disse: “Un
curremu, un curremu”. Aspettassi, vinissi ccà, come si chiama lei?” Raggelato
io risposi Toti”. Da quel momento è nata un’amicizia che durò fino alla sua
morte. Mi chiamava perfino don Totino e anni dopo mi ha detto che aveva
apprezzato la spontaneità di quel mio approccio.
Ogni tanto, negli anni Settanta, evadeva. Salpava per Napoli, dove si favoleggiava che avesse una donna ma, è più probabile che andasse ad assistere alle rappresentazioni delle opere liriche. Il barone era un melomane fanatico e lo testimonia la sua intima amicizia con il tenore suo omonimo. Ogni volta che c’era una prima al Massimo o al Politeama invitava gli artisti a una sontuosa cena in hotel, con le primizie che faceva arrivare dai suoi possedimenti e dalle pasticcerie di Castelvetrano. Amava la vita e le feste. Ad agosto il barone si trasferiva a Villa Igiea; anche lì era di casa. Aveva anche l’abitudine di fare il giro dell’isolato dopo il pranzo. Da via Roma svoltava per via Wagner e poi ritornava da via Principe di Granatelli. Per il resto si faceva portare in albergo quel che gli serviva. C'era un funzionario del Banco di Sicilia che gli portava i soldi di cui necessitava. E poi, il barbiere ogni giorno, il sarto quando serviva. Tutti nella suite. Il 2 novembre si recava clandestinamente al cimitero di Castelvetrano per portare i fiori sulle tombe dei genitori. Un autista lo veniva a prendere alle due di notte, lo accompagnava al cimitero, dove nottetempo c'era ad attenderlo il custode. Alle cinque era già di ritorno. In pochi hanno osato chiedergli se la sua condizione di "recluso" fosse un volere della mafia di Castelvetrano, ma lui, tagliando corto infastidito rispondeva: "Sono favole". Di amicizie pericolose solo due italo-americani lo venivano a trovare ogni anno: Giacinto Di Simone e Charles Orlando. Personaggi forse in odore di mafia. Il secondo fu arrestato proprio alle Palme nel 1965, poco prima (o poco dopo?) che io fossi assunto alle Palme.
La presunta punizione della mafia è una diceria. Ne hanno scritto di tutti i colori. Il vero motivo non si è mai saputo. Posso dire però che era un gran signore, una persona generosa. Non era per nulla cattivo. E poi, gli amici importanti che aveva, se non fosse stata una persona per bene, non si sarebbero avvicinati. O no? Sì e no!
L’Hotel era frequentato dal "bel mondo" che vi transitava: Guttuso, Fabrizio Clerici, la Fracci, Visconti e Burt Lancaster durante le riprese del "Gattopardo", Fred Buscaglione, Maria Callas, Primo Carnera, Patty Pravo il tenore Giuseppe Di Stefano, il vulcanologo Marcello Carapezza che era il padre biologico del figlio adottivo di Guttuso e tanti altri.
Ogni tanto, negli anni Settanta, evadeva. Salpava per Napoli, dove si favoleggiava che avesse una donna ma, è più probabile che andasse ad assistere alle rappresentazioni delle opere liriche. Il barone era un melomane fanatico e lo testimonia la sua intima amicizia con il tenore suo omonimo. Ogni volta che c’era una prima al Massimo o al Politeama invitava gli artisti a una sontuosa cena in hotel, con le primizie che faceva arrivare dai suoi possedimenti e dalle pasticcerie di Castelvetrano. Amava la vita e le feste. Ad agosto il barone si trasferiva a Villa Igiea; anche lì era di casa. Aveva anche l’abitudine di fare il giro dell’isolato dopo il pranzo. Da via Roma svoltava per via Wagner e poi ritornava da via Principe di Granatelli. Per il resto si faceva portare in albergo quel che gli serviva. C'era un funzionario del Banco di Sicilia che gli portava i soldi di cui necessitava. E poi, il barbiere ogni giorno, il sarto quando serviva. Tutti nella suite. Il 2 novembre si recava clandestinamente al cimitero di Castelvetrano per portare i fiori sulle tombe dei genitori. Un autista lo veniva a prendere alle due di notte, lo accompagnava al cimitero, dove nottetempo c'era ad attenderlo il custode. Alle cinque era già di ritorno. In pochi hanno osato chiedergli se la sua condizione di "recluso" fosse un volere della mafia di Castelvetrano, ma lui, tagliando corto infastidito rispondeva: "Sono favole". Di amicizie pericolose solo due italo-americani lo venivano a trovare ogni anno: Giacinto Di Simone e Charles Orlando. Personaggi forse in odore di mafia. Il secondo fu arrestato proprio alle Palme nel 1965, poco prima (o poco dopo?) che io fossi assunto alle Palme.
La presunta punizione della mafia è una diceria. Ne hanno scritto di tutti i colori. Il vero motivo non si è mai saputo. Posso dire però che era un gran signore, una persona generosa. Non era per nulla cattivo. E poi, gli amici importanti che aveva, se non fosse stata una persona per bene, non si sarebbero avvicinati. O no? Sì e no!
L’Hotel era frequentato dal "bel mondo" che vi transitava: Guttuso, Fabrizio Clerici, la Fracci, Visconti e Burt Lancaster durante le riprese del "Gattopardo", Fred Buscaglione, Maria Callas, Primo Carnera, Patty Pravo il tenore Giuseppe Di Stefano, il vulcanologo Marcello Carapezza che era il padre biologico del figlio adottivo di Guttuso e tanti altri.
Veniva persino il cardinale Salvatore Pappalardo a trovarlo.
Cenava assieme, al "tavolo del barone", punto di riferimento per
indicare i vari angoli della sala. Era anche molto amico di Ubaldo Mirabelli,
sovrintendente del teatro Massimo, e del suo figlioccio Pietro Diliberto. Tutti
erano lusingati dal suo invito, affascinati dal suo carisma e incuriositi dalla
sua storia. Uomo “di lettura”, era un abile conversatore.
|
Ammaliava
tutti con quel suo linguaggio frammisto d’italiano e dialetto. Era amico anche dell’avvocato
Paolo Seminara. Prima non entrava mai al bar dell’hotel. È stato Guttuso a
farne un compagno di bevute. Poi, ci veniva da solo. Carla Fracci e tanti altri
gli scrivevano sempre, ma lui non se ne curava, anzi quando glielo si riferiva,
diceva divertito: "E che posso perdere tempo a rispondere a tutti!"
Era di poche ed essenziali parole. Di questa sua caustica laconicità ricordo due momenti: il primo, quando allo chef che sostituiva il suo cuoco preferito Paolo Sciacca, disse perentorio "Michiluzzo, con me si sbaglia solo tre volte. Se sbagli una, te ne restano solo due". Come dire attento a quel che fai. Il secondo riguarda Felice, che abitualmente lo serviva. Sbucciando con coltello e forchetta una delle grosse arance che Di Stefano si faceva arrivare dalle sue campagne, il cameriere aveva sprecato un bel po' di polpa, provocando la reazione del barone: "Professionalmente sei un artista, ma praticamente mi hai sminchiato un' arancia”. Le immense fortune li ha ereditato l’avvocato Messina di Castelvetrano, suo figlioccio. Beato lui. All’hotel ha lasciato Nulla. Solo Giacomino, il cameriere personale che era la sua persona fidata, ha ereditato le scarpe bianco-marrò e i vestiti di lino.
Era di poche ed essenziali parole. Di questa sua caustica laconicità ricordo due momenti: il primo, quando allo chef che sostituiva il suo cuoco preferito Paolo Sciacca, disse perentorio "Michiluzzo, con me si sbaglia solo tre volte. Se sbagli una, te ne restano solo due". Come dire attento a quel che fai. Il secondo riguarda Felice, che abitualmente lo serviva. Sbucciando con coltello e forchetta una delle grosse arance che Di Stefano si faceva arrivare dalle sue campagne, il cameriere aveva sprecato un bel po' di polpa, provocando la reazione del barone: "Professionalmente sei un artista, ma praticamente mi hai sminchiato un' arancia”. Le immense fortune li ha ereditato l’avvocato Messina di Castelvetrano, suo figlioccio. Beato lui. All’hotel ha lasciato Nulla. Solo Giacomino, il cameriere personale che era la sua persona fidata, ha ereditato le scarpe bianco-marrò e i vestiti di lino.
Il Barone e il Cameriere
Il Barone, nelle ore più disparate del giorno, si aggirava silenzioso
fra le piante tropicali della sua terrazza e si nutriva con antiche ricette
siciliane che parsimoniosamente centellinò allo "chef" in cambio di
notizie sul mondo esterno perché per quaranta anni non lesse giornali e aborrì
la televisione. Era accaduto che l'Hotel delle Palme nel 1981 avesse chiesto e
ottenuto dal Barone la trasformazione della terrazza del barone in uno spazio
per il ricevimento degli ospiti dell'hotel promettendogli in cambio di
ristrutturare le due suite unificate nella famosa suite n.204. Il Barone fu
trasferito temporaneamente al terzo piano e con lui si portò qualche pianta a
cui si era particolarmente affezionato.
Si dette il caso che, il precedente cameriere nell'anno 1982 dovette andare in pensione e al Barone gli fu assegnato un cameriere di nome Giacomo. In effetti, non era un cameriere qualificato ma un "ragazzo di campagna" ossia un giovane di buona educazione, con cervello fino ma nello stesso tempo timido, com'è normale che un "ragazzo di campagna" sia a contatto di tanta "nobiltà".
Si dette il caso che, il precedente cameriere nell'anno 1982 dovette andare in pensione e al Barone gli fu assegnato un cameriere di nome Giacomo. In effetti, non era un cameriere qualificato ma un "ragazzo di campagna" ossia un giovane di buona educazione, con cervello fino ma nello stesso tempo timido, com'è normale che un "ragazzo di campagna" sia a contatto di tanta "nobiltà".
Giacomo
sebbene oggi sia un uomo maturo che ha oltrepassato il limite della pensione,
quando ricorda alcuni aneddoti a riguardo, s'interrompe per la commozione.
Ricorda che fu la cameriera Caterina a presentarlo al Barone che guardandolo con i suoi grandi occhiali, dal basso verso l'alto gli chiese: «Ma chistu conosce il mio verso?». Certo poteva pure accadere che qualche volta pretendesse i servigi di una cameriera privata, ma accadeva di rado. Giacomo tira su un profondo respiro e poi, sempre a tratti riprende.. |
Il
barone, quando stava nella propria intimità, pretendeva una routine immutabile.
Pranzo e cena serviti sempre dallo stesso cameriere.
Aveva un odio per tutto quello che era la comunicazione di massa, non lesse mai un giornale, e quando arrivò la televisione disse: "No grazie non m’interessa!". Ogni mattina riceveva la visita dello chef al quale chiedeva notizie sul mondo, quindi li aveva riportate di seconda mano. Ogni mattina inoltre decideva cosa doveva mangiare sia a pranzo sia a cena, naturalmente lui dava, centellinandole, alcune ricette di casa sua. Spesso gli arrivava il pesce fresco in omaggio da Mazara, l'olio di Castelvetrano in omaggio, amava l'aglio, lo metteva dappertutto, era una cosa infame giacché pare puzzasse d'aglio in maniera incredibile.
Non abbandonò le abitudini antiche, il barone. Non cambiò gusti: il pesce fu sempre quello di Mazara del Vallo, il pane e l'olio di Castelvetrano, come la carne e la cacciagione.
Neanche ai piccoli capricci rinunciò. Il fattorino dell'albergo andava per mercati a cercare gli stuzzicadenti di piume d'oca, perché «non sia mai che il barone si mettesse il legno in bocca» spiegava uno dei portieri storici dell'albergo.
Amava l’antica cucina siciliana e uno chef gli preparava i piatti in base alle sue ricette. Da Castelvetrano arrivavano l’olio, il vino e tanto altro. Ma lui, durante i suoi pasti, beveva succo di limone.
Fumò per tutta la sua vita dei sigari cubani che si chiamavano "Julieta e Romeo", che facevano apposta per lui a Cuba, e che gli spedivano ogni mese..
Aveva un odio per tutto quello che era la comunicazione di massa, non lesse mai un giornale, e quando arrivò la televisione disse: "No grazie non m’interessa!". Ogni mattina riceveva la visita dello chef al quale chiedeva notizie sul mondo, quindi li aveva riportate di seconda mano. Ogni mattina inoltre decideva cosa doveva mangiare sia a pranzo sia a cena, naturalmente lui dava, centellinandole, alcune ricette di casa sua. Spesso gli arrivava il pesce fresco in omaggio da Mazara, l'olio di Castelvetrano in omaggio, amava l'aglio, lo metteva dappertutto, era una cosa infame giacché pare puzzasse d'aglio in maniera incredibile.
Non abbandonò le abitudini antiche, il barone. Non cambiò gusti: il pesce fu sempre quello di Mazara del Vallo, il pane e l'olio di Castelvetrano, come la carne e la cacciagione.
Neanche ai piccoli capricci rinunciò. Il fattorino dell'albergo andava per mercati a cercare gli stuzzicadenti di piume d'oca, perché «non sia mai che il barone si mettesse il legno in bocca» spiegava uno dei portieri storici dell'albergo.
Amava l’antica cucina siciliana e uno chef gli preparava i piatti in base alle sue ricette. Da Castelvetrano arrivavano l’olio, il vino e tanto altro. Ma lui, durante i suoi pasti, beveva succo di limone.
Fumò per tutta la sua vita dei sigari cubani che si chiamavano "Julieta e Romeo", che facevano apposta per lui a Cuba, e che gli spedivano ogni mese..
Quando
fu avanti negli anni, dovette rassegnarsi alla sedia a rotelle, solo allora s’isolò
veramente: per pudore non gradiva di farsi vedere. Se ne stava nella sua stanza
piena di piante bellissime ascoltando buona musica e leggendo i suoi libri di
storia.
Non si conoscono parenti del barone Di Stefano, chi ha frequentato l'albergo ricorda la presenza discreta dei due infermieri che si davano il cambio.
Non si conoscono parenti del barone Di Stefano, chi ha frequentato l'albergo ricorda la presenza discreta dei due infermieri che si davano il cambio.
Così è
arrivato ai 92 anni, fino alla Pasqua del 1998, quando se n'è andato nel sonno,
prima di poter gustare il capretto e la cassata, menù tradizionale in Sicilia.
A Giacomo gli aveva confidato che alla sua morte non avrebbe voluto dare la soddisfazione ai nemici di vedere la sua faccia, perciò alla sua morte, così come lui aveva raccomandato, la salma del barone fu avvolta nei grandi teli bianchi da bagno in uso presso la sua suite 204, resi aderenti al suo corpo con gli elastici che il Barone aveva raccolto negli anni e il suo viso fu coperto da un largo fazzoletto marrò, simile al colore della pelle, che una volta inumidito prese la forma di una vera maschera.
Contrariamente ad ogni prassi alberghiera, che tende a nascondere i lutti, l’albergo gli ha voluto riservare l’onore di uscire la bara del barone dalla porta principale, proprio sotto l'unico «balcone lungo» del prospetto stile Art Nouveau, da dove - nelle calde giornate estive - il barone osservava il passeggio pomeridiano. A salutarlo, l'intero personale, il suo fedele cameriere Giacomo Maniscalco e "Totino" Librizzi, istituzione delle Palme, il barman che gli serviva l'aperitivo quando s’intratteneva con Carla Fracci, con qualche politico o col tenore Giuseppe Di Stefano, suo omonimo e buon amico.
La salma fu portata all'inceneritore dei Rotoli ove il suo fedele Giacomo lo assistette all'inumazione.
A Giacomo gli aveva confidato che alla sua morte non avrebbe voluto dare la soddisfazione ai nemici di vedere la sua faccia, perciò alla sua morte, così come lui aveva raccomandato, la salma del barone fu avvolta nei grandi teli bianchi da bagno in uso presso la sua suite 204, resi aderenti al suo corpo con gli elastici che il Barone aveva raccolto negli anni e il suo viso fu coperto da un largo fazzoletto marrò, simile al colore della pelle, che una volta inumidito prese la forma di una vera maschera.
Contrariamente ad ogni prassi alberghiera, che tende a nascondere i lutti, l’albergo gli ha voluto riservare l’onore di uscire la bara del barone dalla porta principale, proprio sotto l'unico «balcone lungo» del prospetto stile Art Nouveau, da dove - nelle calde giornate estive - il barone osservava il passeggio pomeridiano. A salutarlo, l'intero personale, il suo fedele cameriere Giacomo Maniscalco e "Totino" Librizzi, istituzione delle Palme, il barman che gli serviva l'aperitivo quando s’intratteneva con Carla Fracci, con qualche politico o col tenore Giuseppe Di Stefano, suo omonimo e buon amico.
La salma fu portata all'inceneritore dei Rotoli ove il suo fedele Giacomo lo assistette all'inumazione.
Angolo della lettura
Palermo Solo Buonasera, amici ed amiche amanti della lettura ed in paricolare di quei romanzi che tra mistero , legenda e realtà fanno conoscere la nostra bella terra di Sicilia della quale noi tutti siamo innamorati. Eccoci qui per l' appuntamento mensile con i consigli di buone letture. Spero che i miei suggerimenti verranno presi sul serio e sopratutto che siano graditi. |
.
. |
Philippe Fusaro
Nato nel 1971 a Forbach, in Lorena, è di origini pugliesi. Ogni suo libro è legato all’Italia. “Palermo solo”, lo ha consacrato come uno degli autori più apprezzati in Francia. Vive a Lione, dove fa il libraio perché dice di non poter fare altro che stare in mezzo ai libri. |
Recensione:
Il barone è nato all’alba del XX secolo, in una città della Sicilia. Ha offeso il capo di una cosca di Cosa Nostra ed è stato condannato a morte. Vive in una suite del “Grand Hotel et des Palmes” di Palermo da cinquant’anni. Può tornare al suo paese soltanto il 2 novembre, il giorno dei morti. Il barone aspetta, cercando anche di vivere e di amare, e la sua attesa è come un rumore nella capitale ferita della Sicilia. E poi l’amore arriva, inatteso, ed ha il volto di una Ava Gardner che per qualche breve momento permette al barone di uscire da quella prigione fuori dalla quale lo attende, da sempre, il suo assassino. Un romanzo straordinario, teso e insieme dolce, che appassiona fin dalla prima riga. |